pdf solo testo: La scintilla - comunicato - uno spazio occupato non è un locale
Mese: Gennaio 2022
CATALOGO ARCHIVIO STORICO-BIBLIOTECA
All’interno del Catalogo (lo si può consultare cliccando sul link in fondo), in continuo aggiornamento, si possono trovare ordinati per categorie/formato e tematiche trattate libri/opuscoli/fanzine/manifesti/cataloghi/poster/compilation presenti, ad oggi, nell’archivio storico del Circolo Libertario Autogestito La Scintilla, all’interno dello spazio Biblioteca.
Il materiale raccolto e catalogato in tutti questi lunghi anni rappresenta un’importante testimonianza delle iniziative e della storia del nostro spazio, del movimento anarchico e non solo.
Per info puoi scrivere alla mail: lascintilla@autoproduzioni.net
CATALOGO ARCHIVIO STORICO LA SCINTILLA GENNAIO 2022
sabato 15 gennaio – FALLACE LA ROTTA DEL DOMINIO TOTALE
dalle 16:00
X dibattiti informali X con:
X HIRUNDO edizioni / LA NAVE DEI FOLLI da Torino
X compagnx dell’assemblea popolare di Busto Arsizio da Varese
X C.A.M.A.P. collettivo antipsichiatrico da Brescia
X individualità anarchiche sciolte da Bologna, sulla iatrogenesi
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Da una totalizzante mercificazione del selvatico attraverso processi di devastazione della natura,
all’assunzione di un dogmatismo politico per risolverne i disastri ecologici, nell’abbaglio di approdi tecno-scientifici sempre più pervasivi...
E da vincoli di bilancio su sistemi assistenziali di base e burocratizzazione degli accessi alla cura,
a derive coercitive che tenterebbero rovinosamente di sopperirvi.
Nel rimosso di un post-moderno principio di salute, che rifiutiamo di applicare,
continua a spargersi il cancro della speculazione privatistica aziendale…
Se c’è qualcosa che ancora ci resta, in una sempre più pervasiva espropriazione e strumentalizzazione dei nostri bisogni, sta all’opposto di queste,
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“Lontano dalle codificazioni.In questo disperato tentativo forse ne abbiamo costruito altre, altrettanto abbarbicate e inestricabili. La vita che realizziamo nel mondo è ricca di duplicità, cioè non possiamo non accorgerci delle apparenze che manipoliamo, dei ruoli che siamo costretti a giocare. Molti allevano in loro questa tabe [malattia degenativa, marciume, n.d.qb] e sono quindi esseri doppi, giani che in qualunque momento possono girare l’altro lato della maschera. Per fare questo hanno bisogno di nascondere il loro vero volto… Eppure anche loro hanno dentro una inquieta consapevolezza dell’assenza; in fondo, non sono contenti, ed è così che quasi sempre scaricano sugli altri la propria attenzione e le proprie disillusioni. Ma i possessi che conseguiranno, alla fine, davanti alla morte, non potranno restituire il condensato di un veramente vissuto, e si accorgeranno di avere inseguito fantasmi di ogni genere, pietosi rifacimenti della realtà.”[dal secondo numero di Nega-Zine, 2018, edizioni Anarchismo]
XXX
“Certo, interpretare il mondo di oggi, questo baraccone luminoso di tecnologia immanente, non è facile; sviscerare in maniera critica ciò da cui quotidianamente dipende la nostra sopravvivenza mette angoscia; il rilevare la quantità enorme di protesi tecnologiche di cui abbisogna la nostra esistenza inibisce non poco il desiderio di disfarsene. Eppure la libertà senza auto-nomia rimane una presunzione vuota. Così come vuota è l’autonomia incapace di darsi una pratica. Ma la pratica, nel suo compiersi, premette la conoscenza e l’interpretazione. Quindi, anche se faticoso, uno sforzo in questo senso pensiamo sia necessario.”
[da SENZA DI NOI. Sulla tecnologia, le sue evoluzioni e le sue implicazioni sul vivente. Sull'apparenza. Sull'eugenetica e il controllo. Dei cavalli di troia, delle cassandre. E anche di quello che non si dice., 2008, Kinesis, Varese, autoproduzione]
XXX
Qui sotto uno sfogo-spunto, per il superamento di alcuni incagli ideologici,
invitando ad una riflessione profonda e che sia intersezionale,
cui solo forme di organizzazione diretta potranno tornare a dare un senso…
Come avesse dovuto farsi tempo di guerra, la morte, prima nascosta, silenziata e rimossa, è divenuta improvvisamente protagonista indiscussa di ogni notiziario e di ogni decreto di governo. Nell’arco inedito di questa sua annunciazione, coloro che ne sono stati fatti spettatori hanno per lo più finito per acconsentire ad un’ennesima narrazione della propria singolare “impotenza”, usata stavolta per corroborare la falsa necessità (*) di delegare le proprie vite a palliativi normativi generalisti e confusi, astratti e manipolabili, i quali purtroppo, insinuandosi in questi due anni attraverso il nuovo conio del principio delatorio votato al debellamento fisico-sanitario, ma anche sociale e in ambito comunicativo, di potenziali “untori”, o quello anche più esplicitamente moralista che si pone contro “gli egoisti”, delazione e moralismo dunque, che anche se -apparentemente- prive di argomentazioni derivative da demagogia anti-degrado, hanno ricalcato niente più che la presunzione di una sicurezza “nazionale” e “globale”(altro universale ciclicamente misconosciuto) mantenendosi nel concreto per lo più ben distanti da possibilità più spontanee e mutualistiche di una reale responsabilizzazione, intesa come rivendicazione di autonomia dei singoli entro i propri rapporti di prossimità;
nella riduzione a spettatori, invece, purtroppo più presi dal terrore nei confronti dei bollettini quotidiani che presi da una riflessione sulla presenza della morte stessa già nell’ineluttabilità degli ingranaggi in cui si trova ogni quotidiano divenire “civile”, con tuttx i benefici che comporta (potremo mai rinunciarci?) o venga resa da condizione di privazioni sistemiche, del tutto pregresse all’ultimo virus Sars, e del resto, vige un’accettazione indifferente di come dalla morte stessa si tragga più o meno direttamente un valore produttivo che a sua volta andrà a comporre il valore attribuibile alla propria personalità sociale. E quindi, non si capisce come una sensibilità che voglia definirsi tale abbia smesso di ragionare (posto che lo si facesse) di come quella morte benedetta dal sovraffollamento delocalizzato, quasi un fattore residuo del processo evolutivo, non fosse affatto assente nelle progettualità ingegneristiche dell’eliminazione di forme di vita minorate, subalternità etniche o di specie, tacciate di non essere influenti, di non servire o di poter servire come trasformati industriali, eliminatx dal senso di un patire comune pur di fare spazio a sé, o meglio, al profitto per sé (confuso sì il profitto con l’io, ma che non lo sostanzia mica, molto più banalmente: lo rende complice).
[nota * : sulla falsa necessità di delegare le proprie vite, questa si rende impostura proprio attaverso la sua pretesa logicità, sillogisticamente prescritta, ossia procedendo dall’universale quale conforme e naturalizzato concetto di cittadinanza, fino ad i particolari che ne compongono l’insieme, soggettività senza valore fuori di quello ed il cui valore entro dell’insieme viene definito secondo un interesse che li precede e li eccede a tal punto che anche nella manifestazione dei propri bisogni gli individui risultano impossibilitati a non identificarsi nella categoria di massa che li accomunerebbe, in un ulteriore rimosso, che con la morte ha ben a che fare, ossia le differenze di privilegio.]
Questo ciclo di alienazione soggettiva e di oggettivazione delle esistenze attraverso le quali ci si vorrebbe affermare rispetto alla cultura dominante, un’esistenza insomma formalizzata, omologata e omologante, senza la quale non si vede significato se non indotto, spesso concatenato agli stessi meccanismi che del significato se ne appropriano per frne nuova merce, la si chiama “normalità”. Un mondo strizzato in un gioco di specchi giuridici e proiezioni della tecnica, arnesi che non hanno però poi tanto significativamente ampliato quelli che erano i limiti nella concezione prerinascimentale di costrutto simbolico circolare, rimanendo per giunta nel solco di cinte murarie, anche se elettrificate. Un uroboro lasciato in pasto a se stesso. Si trae dunque una sorta di recondita ipocrisia connaturata alla società “normale” in cui ci ritroviamo, fin’ora fondatasi su contrappunti retorici utili al reindirizzamento delle soggettività devianti verso un disciplinamento indotto (e nel plauso perfino, quando non nella distrazione generale): contrappunti retorici quali quelli che si ricalcano su”cedimento o esclusione”, “sacrificio o tortura”, pressoché sempre primariamente stabiliti sulla pelle del più “debole” di turno, a secondo di quanto qualunque cosa potesse significare questa categoria, questa potesse venire strumentalizzata per il profitto di pochi. Il virus ha portato un ribaltamento, non tanto nel senso di eguaglianza davanti alla malattia (perché quello non lo si è mai, per quanti standard d’intervento assistenziale potranno venire calcolati), bensì per quello che viene trasmesso dagli schermi televisivi. È sembrato per un attimo che la morte smettesse di venir colta, dalle istituzioni dominanti, come il tradizionale “bene comune” che da questa fino ad oggi si possono vantare aver conseguito.
Tale “bene comune” non è che emanazione allora di un “progresso neoliberale”, se si voglia usare una terminologia più esplicita.
Per ritrovare qualche riferimento che ci aiuti a non perderci tocca allora probabilmente uscire dal campo di costruzione tanto retorica che di appannaggio strettamente sociopolitico, il quale si è arrogato un po’ troppo l’esclusiva di un’amministrazione della vita pubblica. Tocca scavare. Emerge quanto stia nella paura popolare, piuttosto che nella ragione di cui il volgo è mantenuto privo, il principio di innesto sociale di gran parte dei palliativi normativi, nonché del suo corrispettivo conformismo culturale, che nel poggiare su costruzioni di stigma distaccate dalla concretezza individuale, procece all’accusa delatoria, all’ipocrisia borghese che come un tarlo nell’inconscio coglie anche chi non abbia davvero nulla da guadagnarci. Tutto in nome di una presunta sicurezza “nazionale” e “globale”, precedente immaginario di molte crisi. Nella nostalgia della “normalità”, la paralisi che ha colpito una non meglio concepita “cittadinanza” ha ottenuto di alimentare il delirio narrativo costruito sulla propria impotenza, o non-indipendenza.
Tanto dal lato delle teorie del complotto di ultima generazione, quanto nel riporre speranza in false promesse gestionali e di nuovi boom economici, ci voleva una pandemia perché la morte iniziasse a venire presa in considerazione nel suo rapporto con i luoghi, i tempi e i modi dell’organizzazione sociale che contraddistingue il concetto comune di “benessere”.
Nonostante però sia sorta qua e là anche un’attenzione alla disfatta del sistema sanitario, l’opinione pubblica sembra rimasta ben lungi dalla presa di coscienza di quanto questo, come ogni conquista del welfare pubblico, non possa prescindere nel suo funzionamento, men che meno nel momento del collasso, da un intrico di causalità corruttibili concomitanti, che perseverano, fino a farsi strutturalmente decretate, verso un futuro sempre più pervaso da elementi che eccederanno il nostro campo d’azione, e quindi anche la possibilità di rimedio agli errori da ricaduta macroscopica, elementi insomma che (tangibili o meno che siano dagli istogrammi statistici) vanno a sommarsi in nuove forme di”malattia”.
Ma di questo non è dato ancora dibattere, in una sorta di auto-limitazione dell’evolvere di argomentazioni che possano emanciparsi da costrutti fideistici di verità assoluta (diciamo pure medioevale, però “i reazionari sono sempre gli altri”) resi infine (nuovamente), e con mero linguaggio e retorica politica, mica , quali “indiscutibili”. Dietro a questa retorica aizzata, più che un dibattito metodologicamente scientifico sembra di poter riscontrare il pantano della mistificazione. Non si vede in effetti all’orizzonte della militanza di area marxista, con la quale si condivide pure tanto in termini di conflitto, alcun rovesciamento dell’imperscrutabilità interpretativa dei dati, né di quel conflitto storico che si lasci aggiornare a nuove possibilità di espropriazione proletaria di questi dati e dell’amministrazione delle proprie vite, riscattandole dalle dichiarazioni di coloro che campano del profitto su queste. La divisione specialistica dello sfruttamento lavorativo resta ben salda, tantomeno si crede espletabile una raccolta di valutazioni dirette e dal basso sulla gestione di sé e dei propri rapporti sociali.
Non sembra poi darsi alcun rigore minimamente scientifico nemmeno mentre se ne difende il metodo, senza a volte rendersi conto che la propaganda di un governo è una cosa, la ricerca di laboratorio un’altra. In questo ostinato limitarsi a sovrapporre l’approccio rigidamente dualista di moda al momento, all’esistenza stessa, forse per uno strenuo tentativo di fuggire alla complessità dinamica di questa, gli ultimi decenni di controinformazione rivoluzionaria e insurrezionale sono stati così ridicolmente gettati in quella che, traspare (e finalmente si è rivelata per quello che è), è in procinto di stabilirsi non più come una dialettica delle forze produttive nella scelta consapevole dei propri mezzi e dei propri obiettivi, bensì in una contrapposizione politica ormai naturalizzata della società attuale, questa polemòs archetipica tragicamente immutabile tra negazionismi vicendevoli: o stai col “progresso!”, o con la “reazione!”.
Davanti a un simile binarismo, calato in quel che si taccia come un “noi” perduto, possiamo solo suggerire un semplicissimo MA ANCHE NO verso entrmbe le accuse, procedendo oltre… E scusassero se abbiamo finito le lacrime.
Il disorientamento operato e riflesso che riscontriamo quotidianamente nella sterilità, già intrinseca al mezzo comunicativo, dei dibattiti meramente virtualizzati, o nell’insulto su metodo di ricerca e valutazione quando i risultati confrontati non siano congruenti: anziché quind confrontare appunto “metodo, fonti e risultati” tanto benedetti rispetto alle proprie prospettive di sopravvivenza. Questo possibile approccio, certo non incendiario, ma pur sempre un modo sano di non lasciare la propria conoscenza delle condizioni in cui riversiamo in mano alle classi dirigenti, è stato invece scartato per la strenua e quanto mai infame ricerca pseudo-proletaria di educare “una gran massa di ignoranti” (contro cui allo stesso tempo si lascia veicolare le frustrazioni del momento), tramite le medesime rassicurazioni della ricerca appositamente selezionate dalle potenze finanziarie che amministrano oculatamente la precarietà delle nostre vite. Il distacco da queste prospettive, ossia l’assumere rivendicazioni proprie, senza manco troppa consultazione di esperti del settore, sta venendo sempre più trattato, persino da chi parla di lotta antipadronale, come materia politica da gogna. Simile moralismo probatorio-processuale, per quanto grottesco, ricalca pericolosamente la maniera delle imposture giudiziarie, e sempre tornare a traferire il concetto di “decoro” prima affibbiato nei meandri urbani, alle possibilità del pensiero analitico.
Lo scontro che ci si presenta come sociopolitico mentre si pretenderebbe ontologico e giustiziere insieme, come in un armageddon finale, quello tra progresso o reazione, ha in effetti perso parecchia della sua integrità pratica, e forse non andrebbe preso sul serio ormai che come poco più che un problema meramente ermeneutico. Lo spirito rivoluzionario che rimane a questo tempo non riferisce d’altronde più molto altro di sé che il permearsi di un capitalismo ideologico, ormai secolarizzatosi su quello materiale. Ma ciò che invece a noi preme qui osservare, e che ancora si manifesta come bisogno di sollevazione, pur senza tante illusioni, è il dramma del coinvolgimento sempre più capillare e interiorizzato delle forme del dilagare del capitalismo rispetto al disorientamento di prospettive del vivente, senza farne una distinzione di specie quando si assume l’eliminazione di alcuni a beneficio di altri, generalmente più potenti.
Per questi motivi, alla notizia della “pandemia” e dell’emergenza fattane, non potevamo che rinnovare l’invito a chiederci: chi è il virus? O meglio, cosa ha significato la sindemia per noi e come non prendere parte alla guerra del sistema per il mantenimento di se stesso: cosa è la morte per noi, con quali mezzi si diffonde la morte, come possiamo contrastarla e in che senso vogliamo approcciarci alla cura… E come coltivare questo approccio reciprocamente.
E questo anche per riscattarci da un’atrofizzazione dilangante nell’immaginario comune di tematiche complesse quale è “la salute” in questioni di mera sopravvivenza biologica d’urto, concetti positivisticamente e burocraticamente ridotti, continuando a risultare con ciò banalmente funzionali alla conservazione ipocrita di apparati classisti.
Ecco allora certo, ciò che ci divide: mentre alcunx hanno introiettato pienamente la mentalità unitaria e paternalistica scambiandola per il diritto all’accesso ospedaliero, noi non abbiamo dimenticato di non essere affatto tuttx sulla stessa barca.
Quello di cui ci è toccato prendere atto, e con rammarico, è che l’approccio dei primi ha fatto emergere nella coscienza di molti compagni, come in quella normalizzata cioè plasmata dalle norme, un consolidamento del principio statale di obiettività ordinatrice, dal manto rieducativo o meno, nell’applicazione di strumenti repressivi. Questi ultimi sono tali da colpire non più solo sui piani rivendicativo, giuridico, fisico e psicologico, bensì ormai efficacemente (ed il green-pass ne è stato un banco di prova) sul piano culturale.
Calandosi nel reale, sostenere degli obblighi, quantunque efficaci e funzionali alla preservazione di questo sistema ben prima che in un aleatorio rispetto dei più deboli, significa schierarsi con le forze armate, con il calcolo imprenditoriale e con la demagogia patriarcale di Stato, come se i loro interessi potessero corrispondere al rispetto di noi stessx e delle “categorie fragili”. L’ostracizzazione del “dissenso” in quanto tale, o in quanto percepito come delirante, e appunto per quanto delirante, e per quanto quella dipinta come male minore e prioritario per la salute reciproca, non porta che al rafforzamento di misure coatte, se non persino ad una “psichiatrizzazione, nel dibattito sociale, delle attitudini recalcitranti, fino allo stabilizzarsi di un ampio consenso sulla coercizione sanitaria, abbandonando la contestualizzazione diretta di molteplici istanze. Questo processo porta purtroppo, nell’opinione comune ma anche nelle pratiche condivise, alla soppressione di quelle stesse potenzialità riorganizzative che desiderino dedicarsi ad una sussistenza che non si lasci sovradeterminare; che non si esauriscano nello sguardo sul mondo in una dipendenza insormontabile dai tecnicismi; che non si immedesimino acriticamente nella retorica pubblicistica di sempre più intrusive implementazioni per l’efficienza produttiva e di controllo; che non siano disposte a misconoscere i propri bisogni diretti, né a temere percorsi di indipendenza da megalo-meccanismi.
Quella che ormai spesso viene distorta come “reazione” a tutto ciò, confusa dalle allerte di certo antifascismo inariditosi dietro all’ennesimo recupero del potere costituito del concetto di “bene comune” e di tanti altri termini di cui sembra ahiloro sempre più vano avere esperienza diretta (questa misconosciuta), in quanto ormai decretati dal dibattito mainstraim alla funzione usa e getta che risulta di volta in volta più comoda, in un ribaltamento semantico insito nella propaganda (perchè ancora di propaganda si può parlare) che insiste a definire lo stato delle nostre fotture esistenze a prescindere dalle rivendicazioni, dal contesto e dalla storia degli ultimi. Invece no, chi pone “dubbi” è all’oggi sicuramente cripto-fascista, come poi se non lo sapessimo (leggasi “facessimo pure noi”) già che condizioni discriminatorie, coercitive e in qualche modo oppressive potessero venire assimilate a quello di “privazione di libertà”. O no?
Si tratta piuttosto semplicemente di mantenere coscienza di come questo delicato passaggio storico stia portando a compimento irreversibile la pianificazione urbanistica, modelli gentrificatori, infrastrutture logistiche ad alto impatto ambientale, il culto sfrenato della merce, ai quali si sono aggiunte soluzioni ignegneristiche energivore vendute come ecologiche e di cui non si ha percezione, come l’investimento in modificazioni nanometrica dei materiali, fino alla più banalizzata conversione digitale dei rapporti in sempre più ambiti comunicativi. I tentativi dal basso, ormai resi “irrazionali”, di fare analisi e di agire per non rimanere annicchilitx da questi processi, quando non definitamente eliminatx, sono forse stati abbandonati da chi li sosteneva solidarmente, o non sono forse stati compresi appieno? Non hanno forse a che fare con la salute collettiva?
L’accanimento pieno di pregiudizi sul disorientamento informativo, sociale, politico e personale, ma che su questo disorientamento si alimenta, non è forse allora che il riflesso frustrato di un rifiuto interiore ad affrontare il presente con le proprie armi, ognunx a se stessx ed alle contraddizioni entro cui fin’ora s’è lasciatx incarnare.
Il miracolo che tutti pare in tantx si attendono vigilmente dalle misure inquisitorie postmoderne è la scomparsa della morte dal discorso pubblico, il suo ritorno all’isolamento e alla riservatezza delle sale di rianimazione, dalle quali non sembra poter uscire al confronto tra comuni mortali una benché minima considerazione dei limiti intrinsechi al progresso di una crescente automazione tecnologica, e negli hospice, dove l’anziano non possa tornare a costituire un problema per la frenesia urbana e per i rimasugli di sovvenzioni assistenziali..
Pertanto, ci siamo domandatx semmai quali fossero le intersezioni sindemiche del virus su cui potevamo agire, e come autodeterminare un percorso di maggior consapevolezza a riguardo.
Rifiutiamo, al contrario, un’assimilazione passiva delle nostre esistenze all’avanzamento liberale, ordo o locale che sia, sempre su matrice coloniale si è eretto e che coloniale continua a rivelarsi.
E rifiutiamo pure molto serenamente di applicare o subire il moralismo che esso sparge come un’esalazione velenosa, tanto più in quanto quant’ultimo si rivela intrinsecamente sbirresco, inneggiante al paternalismo sanzionatorio e previdenziale istituzionale, in questa strana illusione di un alveo (fortuna limitato) post-movimentista, perché evidentemente le lotte non erano già abbastanze soffocato dal procedere classista-amministrativo e penalistico-carcerario, di poter trovare la propria coerenza emancipatoria nell’accettazione di fatto acritica delle procedure statali.
Nel promuovere l’inevitabilità di rimettere le proprie sorti in mano alle opere di governo troviamo un sintomo di resa definitiva ai principi di un progresso che si pone fin dai suoi albori quale irrefrenabile, che ora, nell’avanzamento sperimentale biotecnologico, di derivazione eugenetica devastatrice e securitaria insieme, checché non lo si voglia di riconoscere profondamente monopolistica e colonizzatrice, si picca di trovare le soluzioni ai suoi disastri: dallo sradicamento e genocidio di popolazioni indigene fino allo spargimento risolutivo di fattori microbiologici quale le percentuali di inquinamento persistente riscontrabili in ormai ogni cosa che respiriamo, mangiamo, beviamo.
Restiamo apertx ad un confronto vivo, che negli scazzi quanto nel supporto vis a vis trovi il suo concreto margine d’intesa, un tipo di scambio facilmente squalificabile dalla comunicazione mainstream ed in termini di massa o popolazione, in quanto non accettiamo di prestarci ad essere recuperatx da qualche forma di riduzione positivistica e burocratica, men che meno di poggiare sul principio del controllo, o del ricatto sociale, al contrario rinnovando la nostra opposizione schietta al suo propagarsi in modo sempre più capillare, tanto dal punto di vista prettamente demografico quanto in chiave ermeneutica, pertanto anche politica, e psicologica insieme, con ricadute in ambiti tossicologici e psichiatrizzanti, come si rileva dallo stato di sofferenza in tal senso in cui moltx di noi riversano..
In sintesi, niente su di noi, sopra di noi.
Mentre le autorità non potrebbero succedersi se non negando la concatenazione storica senza posa di morti accidentalmente provocate entro una funzione conservatrice delle dinamiche di potere istituite via via, e mentre si dedicano all’annientamento di qualsiasi esistenza non rientri in parametri e confini di domesticazione ai meccanismi strutturali grottescamente paternalisti e patriarcali tramite i quasi esse si espandono ipertroficamente, mentre insomma pretendono estrarre valore dalle masse popolari tramite l’impostura dei principi di efficienza e funzionalità plasmabile, così nella trita ragion Stato, come nel reset d’impresa 4.0, ci sembra di intravedere le ultime potenzialità di conflitto nella presa di coscienza della condizione postmoderna di rimozione continua di sé, delle proprie sofferenze personali, delle lotte politiche sconfitte o recuperate, di riduzione al meramente condizionato, alla dipendenza totale dalla merce, alla resa alle sue leggi come alla derivazione passiva, in null’altro che il riflesso di articolate cooptazioni demagogiche, di pestilenze industriali nanometriche, di economie che continuano senza freni a negare lo sfruttamento umano, animale, della terra.
Se c’è qualcosa che ancora ci resta, in una sempre più pervasiva espropriazione e strumentalizzazione dei nostri bisogni, sta all’opposto di queste, una ormai flebile ma inesauribile determinazione a negare le autorità ed ogni influenza che si arrogano di poter diffondere sulle nostre vite.
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“L’unica cosa che potremmo fare è essere contenti e beati della nostra situazione. Non la situazione terminale dei sanatori, non la situazione estrema delle miniere, non la situazione di sfruttamento occhiuto delle quattordici ore lavorative, ma una situazione del tutto accettabile.In altre parole, la catena che stanno costruendo potrebbe essere una catena dorata, abbastanza comoda da consentire molti movimenti e, a lungo andare, con la catena ai piedi, potremmo pensare che stiamo camminando grazie alla catena, non malgrado la catena, e nel momento in cui pensiamo che stiamo camminando grazie alla catena il cerchio si è chiuso, siamo definitivamente ridotti allo stato di schiavitù. Ad un tipo di schiavitù senza rimedio. Ecco perché è necessaria la ribellione oggi ed ecco perché è necessaria la distruzione oggi.”[da Dominio e RIvolta, Alfredo Bonanno]