“Un ripartire dall’individuo quindi, dalle sue passioni più recondite e incontenibili, da quel residuo non civilizzato che riemergendo da sotto il cemento della mentalità addomesticata può far deflagrare con una distruzione selvaggia le fondamenta della nostra oppressione.”
[ crf. Hocquenghem e la rivoluzione del desiderio, da Paroxysm of Chaos n.1 col titolo Negatività Queer, articolo ripreso in Caligine n.3 ]
Due giorni di incontri su pratiche transfem intorno all’autodifesa ed alla critica radicale contro la società dello sfruttamento capitalistico e le stesse forme strutturali, normative e culturali che finiscono per produrre e riprodurre oppressione, quale quella sessista e patriarcale, attraverso i secoli.
Per non lasciarsene addomesticare e per darci strumenti -che siano davvero nostri- per affrontare le prevaricazioni di genere in ogni luogo ci si ritrovi, tanto come individualità che collettività non binarie : nella comunicazione digitale, nei rapporti di lavoro, nelle strade, nelle nostre case, e nondimeno negli spazi in cui si proclama liberazione reciproca ma si ricade nell’aggirarla.
PRIMA DI ANNUNCIARE IL PROGRAMMA COMPLETO, INVITIAMO COLLETTIVE E SINGOLX CANE SCIOLTE CHE ABBIAN VOGLIA DI CONDIVIDERE LABORATORIE E PROPORRE APPROFONDIMENTI SU CUI CONFRONTARCI, A SCRIVERCI VIA E-MAIL A lascintilla@autoproduzioni.net, O SE POSSIBILE TRAMITE CONTATTO DIRETTO!
IL TEMA PRINCIPALE CHE PROPONIAMO È L’AUTODIFESA NELLE SUE INNUMEREVOLI DECLINAZIONI DI LOTTA ALLE PREVARICAZIONI DI GENERE.
Di seguito trascriviamo qualche breve spunto introduttivo con la rispettiva bibliografia per chi si volesse avvicinare all’argomento:
“Per prima cosa è necessario ribadire un concetto fondamentale, ovvero il fatto che il primo passo per vivere bene e sentirsi sicuri [per non ricadere in logiche repressive securitarie è abbastanza condiviso in ambito queer indicare questo termine con l’accezione piuttosto attribuita ad una safeness] all’interno di un contesto sociale è il rispetto reciproco, che consiste nel non limitare n alcun modo la libertà degli altri con le proprie azioni. Eppure non tutte le persone si comportano di conseguenza. (…) Se la nostra ambizione è quella di costruire relazioni non determinare dalle norme sociali prescritte ma centrate su una nuova e diversa forma di socialità più libera, allora il saper comunicare i propri desideri e saper cogliere le volontà, le possibilità e i limiti stessi delle altre persone coinvolte diventa imprescindibile. (…) Le persone che aggrediscono alle volte non credono d’aver commesso soprusi nella propria condotta, non colgono gli elementi problematici, ma inseriscono le violenze nella continuità del loro modo di fare. (…) Determinante è il luogo in cui ci troviamo. Se tutte le persone che sono testimoni di violenze intervenissero, diminuirebbe drasticamente (la cultura della sopraffazione). (…) Una chiara risposta collettiva è necessaria. (…) Lavorare sulla comunicazione, condividere esperienze e comportamenti, possono portare a cambiamenti radicali e duraturi nella percezione dei propri comportamenti e nei comportamenti stessi.”
[da Il problema delle molestie sessuali nei free party, in Repetive Beats, opuscoletto pubblicato a seguito della repressione sbirresca della festa in Puglia la scorsa estate]
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“Se parliamo di oppressioni, come si può intravedere da ciò che abbiamo appena scritto, gli spazi sono spesso safe per le persone che hanno più privilegi e/o per la maggioranza che li costituisce. Se parliamo di aggressioni, preferiamo piuttosto parlare di “safer” (più safe) perché nessun* sarà mai al riparo da eventuali aggressioni. Crediamo che chiamando safe i nostri spazi, questi lo diventino? È sufficiente nominare i sistemi di oppressione per farli scomparire, o attenuare, o perché siano presi in considerazione? Allo stesso modo, è sufficiente mostrarsi critic* rispetto a situazioni di aggressione per fare in modo che non se ne producano? Abbiamo notato in diverse occasioni, nei testi di presentazione di posti o di festival, una tendenza a elencare comportamenti oppressivi, come se il fatto di verbalizzarli/nominarli li eliminasse con un colpo di bacchetta magica. Non basta dire/scrivere che certi comportamenti non sono accettati per farli scomparire dagli spazi. La performatività non funziona, dire cose non basta per farle esistere. (…) Un altro aspetto dell’utilizzo della parola safe sul quale avevamo voglia di interrogarci è il suo potere di chiudere il dibattito o la discussione. È utilizzato, a torto o a ragione, come l’argomento supremo che non si può discutere e che non si può rimettere in discussione. (…) Non stiamo dicendo che bisogna sempre confrontarsi con tutt* e che quindi non vediamo l’interesse degli spazi non misti. Ma negli spazi non misti non cerchiamo degli “spazi safe”. Nella nostra voglia di “collettivo”, preferiamo costruire rapporti di fiducia che rendano possibili il confronto e la conflittualità, piuttosto che essere in situazioni/gruppi/.. in cui tutto sembra andare per il meglio perché non si osa parlare di ciò che potrebbe essere conflittuale. Se per “spazi safe” inten- diamo degli spazi privi di oppressioni e aggressioni… meraviglioso! Ma sappiamo bene che non potranno mai esistere. Però, sappiamo anche che possiamo agire per migliorare i nostri spazi prendendo iniziative ed essendo attiv* rispetto a cosa vi succede. Per esempio, troviamo importante cercare di ridurre la paura di aggressioni negli spazi, visto che
questa paura è parte di ciò che permette ai sistemi di dominazione di mantenersi in piedi e di ciò che controlla e limita la vita e le azioni de* oppress*.”
[da Gli spazi safe ci mettono in difficoltà?]
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“Spesso nascono tensioni quando le donne trans tentano di accedere a “spazi per donne” che si suppongono essere rifugi sicuri dal patriarcato. L’origine di questi può essere fatta risalire al primo femminismo lesbico degli anni ’70, composto per la maggior parte da donne di classe media che consideravano il sessismo come la più importante disuguaglianza sociale, trascurando però ampiamente il loro ruolo nella riproduzione di altre oppressioni come il razzismo e il classismo. Partendo dal presupposto che il sessismo influenzasse la vita delle donne più di ogni altro elemento sociale, davano per scontato che la loro esperienza a riguardo fosse la medesima per tutte indipendentemente dall’etnia, dalla classe, etc., e intendendo, con la parola donne, tutte fuorché le donne trans. L’opportunistica disattenzione nei confronti delle disuguaglianze diverse da quelle di sesso e genere è stata messa a critica [dagli sviluppi successivi delle rivendicazioni a riguardo] quale un modo per mantenere il proprio privilegio di donne bianche e benestanti. Allo stesso modo, le transfemministe non dovrebbero rispondere alle accuse di privilegio, poste dal femminismo radicale e lesbico anni ’70, negandolo. (È proprio) riconoscendo e affrontando i nostri privilegi che possiamo invece sperare di costruire alleanze con minoranze tradizionalmente ignorate.”
[dal Manifesto Transfemminista di Emy Koyama]
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“La battaglia in corso nel dibattito femminista tra visioni di del genere basate sul costruzionismo sociale e quelle deterministe biologiche spesso ci distanzia dalle persone che le femministe dovrebbero voler liberare. Nello scrivere un’analisi critica a queste questioni, è importante per me situarmi in relazione a una politica che nasce dalle mie stesse condizioni e necessità. Essendo una donna transgender non mi sono imbattuta in queste questioni soltanto in quanto femminista e anarchica, la ma politica d genere si è sviluppata dalle mie battaglie personali, che spesso cominciano fin dalla più tenera infanzia. (…) È fondamentale che non ignoriamo la nostra unicità e allo stesso tempo che non facciamo classifiche delle nostre oppressioni, cominciando ad affrontarle non da una base teorica ma scontrandoci con quella che Cherrie Moraga descrive come “la fonte della nostra oppressione”: senza nominare il nemico dentro e fuori di noi non può avvenire alcuna connessione autentica e non gerarchica tra minoranze oppresse.”
(…)
Le persone che non rientrano nei binari di genere del femminile e del maschile sono sempre state tra noi. “Transessualismo” e “disforia di genere” sono definizioni storicamente recenti utilizzate dal sistema medico e psichiatrico. (…) Quando teniamo in conto che l’omosessualità era definita come un disturbo mentale fino al 1973, e il transessualismo è ancora definito come tale dal sistema psichiatrico, dobbiamo considerare con serio scetticismo le opzioni che gli “esperti” medici sono disposti a fornire. Il genere non è soltanto una condizione psicologica dell’essere, ma è anche una condizione politica. Ho scelto l’uso della parola trans-gender in cui rispecchiarmi come postura di liberazione, nella speranza che questo possa essere assumibile da tutte le persone non etero-normate in generale, nel rifiuto di separare le persone transessuali da bulldaggers, travestitx, drag queens e king, femmes, intersessuatx, androginx, genderfuck e tutte quelle che rifiutano tali categorie. Tuttavia, questa posizione non è per forza condivisa ampiamente in queste comunità.
(…)
La seconda ondata del femminismo è emersa dai movimenti contro la guerra e per i diritti civili alla fine degli anni ’60. Le donne hanno cominciato a riconoscere la loro condizione di subalternità e a parlare, originariamente in gruppi di auto-coscienza. Il genere veniva considerato oppressivo perché creava ruoli artificialmente costruiti di femminilità e mascolinità per legittimare la supremazia maschile. La lotta per la distruzione del capitalismo non era sufficiente, poiché emergeva come il capitalismo non fosse che un contrafforte della supremazia maschile. Di lì, gruppi differenti di donne hanno optato per strategie differenti. (…) Se questo movimento può essere sembrato un fronte unito nel 1968, già nel 1970 era esploso in molte fazioni. Ed in una situazione di rigurgito delle destre conservatrici al potere, con l’elezione di Nixon, il recupero liberale del femminismo ha cominciato ad essere allettante, tanto che tramite femministe culturali come Kathleen Barry e Robin Morgan parlare di rivoluzione ha iniziato a significare di essere considerate machiste.
[da Politicizzando il genere in prospettiva rivoluzionaria, di Carolyn, dall’opuscolo Scritti transfemmnisti, un’antologia]
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“Durante il sedicesimo e diciassettesimo secolo, in tutta Europa, in ogni città e villaggio, le donne vennero uccise in massa come streghe. In alcune aree, ne venivano uccise alcune tutte le settimane; in altre ne venivano uccise centinaia in un colpo solo. E’ difficile ottenere la cifra reale, ma è probabile che siano state centinaia di migliaia, in un’epoca in cui la popolazione europea era minore di quella di adesso. In Inghilterra, circa un quarto di tutti i processi criminali dall’inizio del sedicesimo fino alla fine del diciassettesimo secolo furono processi di streghe, e la maggior parte delle accusate perì. (…) La maggioranza delle donne accusate erano donne contadine povere, e i loro accusatori erano membri del clero o membri benestanti della stessa comunità – spesso i loro padroni di lavoro o i proprietari delle loro terre. (…) I processi alle streghe non erano uno strascico dei tempi medioevali, ma parte del progetto dell’ascesa del capitalismo e dell’“Illuminismo”. Le esecuzioni di streghe furono utilizzate da settori della classe dominante di tutta Europa per confiscare proprietà, demonizzare i mendicanti, controllare la riproduzione, rafforzare il controllo sociale e i ruoli di genere, ed escludere le donne dalle attività economiche, politiche e sociali. (…) Resero possibile l’imposizione di una visione delle donne come sesso debole e l’esclusione delle donne da qualsiasi sfera privata e sociale di influenza. Introdussero divisioni di genere all’interno delle classi lavoratrici e contadine, contribuendo a schiacciare la resistenza di classe nei confronti dell’emergente capitalismo.
(…)
La demonizzazione dei “negri”, durante la prima fase della colonizzazione, servì a soddisfare un obiettivo simile. La creazione di stereotipi, sostenuti poi con il terrore della violenza, serve a rendere possibile l’esproprio delle terre, delle risorse, dei corpi o del tempo. Il risultante sessismo o razzismo rimangono radicati in profondità nella nostra psiche per continuare ad assolvere alla funzione di giustificare lo sfruttamento e l’oppressione che proseguono. L’esclusione sociale, economica e politica messa in atto in quelle fasi continua a echeggiare nel presente. (Perciò) comprendere i processi alle streghe del sedicesimo e diciassettesimo secolo è fondamentale per comprendere l’ascesa del capitalismo, della famiglia e del potere della medicina, l’origine della moderna divisione tra generi e la nostra relazione con il corpo.
[da Donne al Rogo, la caccia alle streghe in Europa, le enclosures e l’ascesa del capitalismo]
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“In una società dove il bene è definito in termini di profitto anzichè in termini di bisogni umani, ci deve sempre essere qualche gruppo di persone che, attraverso l’oppressione sistematica, può essere considerato in sovrappiù, per occupare il posto dell’inferiore deumanizzato. (…) Quando le donne bianche ignorano il loro privilegio incorporato della bianchezza e definiscono la donna nei soli termini della loro propria esperienza, allora le donne di Colore diventano l’”altro”, l’escluso la cui esperienza e tradizione sono troppo “aliene” per essere comprese. Un esempio di questo è la significativa assenza dell’esperienza delle donne di Colore nei corsi di Studi delle Donne. La letteratura delle donne di Colore è raramente inclusa nei corsi di letteratura delle donne, e quasi mai in altri corsi di letteratura, e nemmeno negli Studi delle Donne nel loro complesso. Troppo spesso, la scusa ufficiale è che la letteratura delle donne di Colore può essere insegnata solo da donne di Colore, o che è troppo difficile da capire, o che gli studenti non possono “capirla” perchè vengono da esperienze che sono “troppo diverse”. (…) Per le donne Nere, è necessario in tutti i momenti separare i bisogni dell’oppressore dai nostri stessi legittimi conflitti all’interno delle nostre comunità. Alcuni problemi li condividiamo in quanto donne, altri no. Voi avete paura che i vostri bambini crescendo si uniscano al patriarcato e testimonino contro di voi, noi abbiamo paura che i nostri bambini siano trascinati via da un’auto o uccisi a colpi di pistola per la strada, e voi girerete le spalle riguardo alle ragioni per cui stanno morendo. Dall’altro lato, le donne bianche affrontano l’insidia di venire sedotte ad unirsi all’oppressore con la promessa di condividere il potere. (…) Come categoria, le donne di Colore sono quelle con il salario più basso in america. Siamo le vittime principali dell’abuso di aborto e sterilizzazione, qui e all’estero. In alcune parti dell’Africa, le bambine vengono ancora cucite tra le gambe per mantenerle docili e disponibili per il piacere degli uomini. Questa è nota come circoncisione femminile, e non si tratta di una questione culturale come ha insistito a dire nell’ultima fase Jomo Kenyatta, è un crimine contro le donne Nere. la necessità di una storia di battaglia condivisa ci ha reso, noi donne Nere, particolarmente vulnerabili alla falsa accusa che essere anti-sessiste è essere anti-Neri. Allo stesso tempo, l’odio per le donne come rifugio di chi è senza potere sta togliendo forza alle comunità Nere, e alle nostre stesse vite. Lo stupro è in aumento, che sia denunciato o meno, e lo stupro non è sessualità aggressiva, ma aggressione sessualizzata. Come fa notare Kalamu ya Salaam, uno scrittore Nero, “Finchè esiste il dominio maschile, esisterà lo stupro. Solo le donne che si rivoltano e gli uomini resi consapevoli della loro responsabilità nel combattere il sessismo possono insieme fermare lo stupro”.
(…)
Nelle comunità di donne bianche, l’eterosessismo è a volte il risultato dell’identificazione con il patriarcato bianco, un rigetto di quell’interdipendenza tra donne che si identificano come donne che permette al sé di essere, anziché di essere usato al servizio degli uomini. A volte riflette una credenza, dura a morire, nel fattore di protezione delle relazioni eterosessuali, a volte un odio verso di sé contro cui tutte le donne devono lottare, che ci viene insegnato dalla nascita. (…) Come donne, dobbiamo sradicare i modelli interiorizzati di oppressione da dentro di noi se vogliamo andare oltre gli aspetti più superficiali del cambiamento sociale. Il futuro della nostra terra può dipendere dalla capacità di tutte le donne di identificare e sviluppare nuove definizioni di potere e nuovi modelli di relazionarsi attraverso la differenza. (…) La mia più completa concentrazione di energia è disponibile a me solo quando integro insieme tutte le parti di chi sono, apertamente, lasciando che il potere da fonti particolari del mio vissuto scorra avanti e indietro liberamente attraverso tutte le diverse parti di me, senza le restrizioni di una definizione imposta esternamente. Solo allora posso portare me stessa e le mie energie nel loro complesso al servizio di quelle lotte che sposo come parte della mia vita.”
[da Eta’, razza, classe e sesso: le donne ridefiniscono la differenza, di Audre Lorde]
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“Fortunatamente, vi è anche una reazione da parte di una minoranza di gruppi queer e femministi al qualunquismo politico delle principali associazioni nazionali Glbt, che non si fanno problemi a chiedere dialogo, appoggio e sicurezza perfino a personaggi politici di destra o estrema destra, di fatto confermando l’appoggio a politiche repressive come il «pacchetto sicurezza». Alcuni gruppi e associazioni di Napoli hanno firmato un appello ai movimenti per la costruzione di uno spezzone Glbtiq femminista, antisessista, antirazzista e antifascista al Pride 2010 di Napoli, per ribadire un’opposizione radicale ai neofascisti, al razzismo istituzionalizzato e alla medicalizzazione/mercificazione forzata dei corpi, nonché la propria solidarietà con gli immigrati e le immigrate rinchiusi/e nei Cie, con le lavoratrici del sesso e le altre fasce oppresse della società in base a categorie di genere, razza, classe sociale. (…) L’attivismo Glbt italiano ha (però troppo spesso) rinunciato a creare alternative al sistema etero-patriarcale. Proprio chiedendo invece l’inclusione, non si fa che assecondare il clima politico reazionario e porre altri soggetti marginalizzati ancora più ai margini. (…) Negli Stati Uniti, invece, già da tempo queer radicali hanno cominciato a organizzarsi.
“Gay Shame è un virus nel sistema. Ci dedichiamo a una condotta queer stravagante che porta l’azione diretta a livelli sbalorditivi di teatralità. Non ci accontenteremo di un’identità gay commercializzata che nega i legami intrinseci tra la lotta queer e la sfida al potere.” Gli attivisti di Gay Shame, gruppo nato nel 1998, si pongono in contrasto con le richieste riformiste dei gruppi Glbt più in vista, svelando come la «politica dei piccoli passi» sia frutto di un modello di pensiero liberale e serva ad allontanarci da una reale liberazione, sia anzi funzionale al mantenimento del sistema dominante, poiché si concentra sui sintomi esterni dell’oppressione anziché agire sulle cause e sui meccanismi. Il matrimonio gay, come il diritto di voto, sono per Gay Shame «gesti simbolici che rafforzano le strutture mentre affermano di riconfigurarle». Per questo Gay Shame è favorevole allo smantellamento / all’abolizione del matrimonio, dell’esercito, dell’industria carceraria, del capitalismo. Lo scopo è disseminare controinformazione attraverso azioni simboliche e provocatorie e mettere in discussione le dinamiche di potere sia all’interno della cosiddetta «comunità queer» sia nella società più allargata. È forte la critica alla mercificazione dell’identità gay/lesbica e al suo desiderio di assimilazione nella «normalità». Centrale è la lotta e la sfida contro ogni forma di gerarchia, dal razzismo alle disparità di classe, dalla misoginia all’eterosessismo, dalla transfobia alla discriminazione verso chi è disabile. Gay Shame nacque in risposta alla campagna di «pulizia» e riordino della città di New York promossa nel 1998 dall’allora sindaco Giuliani, campagna che puniva in particolar modo i/le senza tetto, la comunità queer, le lavoratrici del sesso e altre persone emarginate con la brutalità poliziesca e la repressione, per rendere i quartieri considerati «degradati» appetibili per la speculazione edilizia, il business e il turismo. Gay Shame emerse per fornire un’alternativa radicale alla commercializzazione della comunità queer e dei Gay Pride, con la creazione di eventi gratuiti e aperti a tutti dove le persone queer potessero creare cultura e politica al di fuori delle logiche di mercato e di uniformità dominanti, secondo idee anarchiche, di autoproduzione e di resistenza radicale. Altri gruppi Gay Shame nacquero successivamente a San Francisco, Toronto e in Svezia. Una delle attività principali di Gay Shame è svelare la sete di successo dei politicanti gay e delle politicanti lesbiche portavoce delle associazioni Glbt più in vista, che con le loro scelte politiche hanno contribuito a rendere il mondo più consumista, più razzista, più militarizzato, più industrializzato, anziché lavorare verso una liberazione reale. Altre azioni portate avanti sono le contestazioni ai Pride di San Francisco, sponsorizzati ormai dalle multinazionali, per denunciarne i contenuti consumisti, patriottici e assimilazionisti. Gli organizzatori del Pride chiesero in più occasioni l’aiuto della polizia, mossa che portò all’arresto di alcuni/e attivisti/e di Gay Shame.
(…)
Il gruppo queer anarchico che ha raccolto intorno a sé più persone, idee e azioni è Bash Back! Bash Back! nasce nel novembre 2007 a Chicago da «una gang di queer, trans e miscredenti» intenzionati a creare un network di queer anarchici/e per portare il maggior disturbo possibile alle convention repubblicana e democratica previste per l’anno successivo.
“1) Siamo anarchici queer. Ci opponiamo allo Stato e al capitalismo in tutte le loro forme. 2. Siamo contro l’assimilazionismo. Ci rifiutiamo di elemosinare l’uguaglianza allo Stato. 3. Ci opponiamo attivamente all’eterosessismo, la transfobia, la discriminazione verso le persone disabili, il patriarcato, le gerarchie di classe e la supremazia bianca. 4. Crediamo nella liberazione collettiva per tutte le persone. 5. Crediamo nella solidarietà rivoluzionaria con chiunque sia attivo nella lotta contro lo Stato o il dominio del capitalismo. Supportiamo in special modo i nostri compagni e le nostre compagne che hanno problemi legali a causa delle loro lotte.”
Le loro attività includono la redazione di un periodico, «Pink and Black Attack», il supporto ai prigionieri, azioni di disturbo e azioni di sabotaggio. (…) Le azioni di disturbo portate avanti da Bash Back! sono tra le più varie e fantasiose: da un contropresidio in risposta a quello del Movimento nazionalsocialista venuto a contestare il Pride a una protesta contro Wells Fargo, una banca dalla facciata gay-friendly (finanzia alcune grosse associazioni Glbt) di cui viene svelato il ruolo nella costruzione dei centri per migranti e altre nefandezze; dall’infiltrazione in una conferenza su come «guarire dall’omosessualità» tenuta dal gruppo cristiano Exodus alle azioni di disturbo al Pride, con volantinaggi contro gli sponsor delle multinazionali e contro la polizia; dai party queer in strada non autorizzati, che finiscono con danneggiamenti a macchine di lusso e banche, a manifestazioni contro la Human Rights Campaign, la maggiore associazione gay/lesbica americana, che oltre a eliminare le persone trans dalla sua agenda politica riceve finanziamenti da Shell, BP, Citybank e altre multinazionali. Gruppi di Bash Back hanno inoltre partecipato alle manifestazioni contro la guerra in Afghanistan, alle manifestazioni anti-G20 a Pittsburg e al corteo delle donne lesbiche (Dyke March). (…) Nell’estate 2010 Bash Back! si sciolse ufficialmente come rete di gruppi, perché aveva esaurito la sua funzione di radunare le persone queer radicali in funzione delle proteste contro le convention democratiche e repubblicane del 2008. Nel corso di questi tre anni si sono costituiti nuovi gruppi in ben diciannove città degli Stati Uniti, i quali proseguono le attività autonomamente.”
(…)
LIMITI E CONTRADDIZIONI DI UNA POLITICA IDENTITARIA
“L’emergere delle teorie queer di decostruzione del genere e della sessualità è fondamentale per la ribellione contro un’oppressione secolare, basata sul genere e sulla preferenza sessuale, che ha sempre trovato giustificazione nei discorsi delle autorità.
La liberazione interiore dai preconcetti e dalle false idee che il dominio ci ha inculcato è la premessa fondamentale per l’inizio di una lotta che trasformi tutti i rapporti della società, e che soprattutto restituisca a ogni individuo la libertà di essere se stesso/a e di definire la propria identità e il modo in cui relazionarsi con gli altri: “Si tratta di recuperare la nostra capacità di autodeterminazione, autodifesa, resistenza all’oppressione, alle forze del mondo esterno, ma anche resistenza e autodifesa da forze che agiscono nel mondo interno […]: rimozione, diniego, proiezione, ecc. […], perché il soggetto sociale è sempre anche soggetto psichico, e quindi attraversato da desideri, pulsioni, fantasie o fantasmi consci e inconsci che costituiscono un’altra modalità di costrizione.” (Teresa de Lauretis, Soggetti eccentrici).
Le analisi femministe, gay e lesbiche si sono spesso focalizzate su una concezione semplicistica delle relazioni di potere, viste come un rapporto a senso unico tra oppressori e oppressi, o tra colonizzatori e colonizzati, rafforzando le nozioni di differenza di genere e di orientamento sessuale in chiave oppositiva. L’oppressione millenaria nei confronti dei soggetti categorizzati come «donne» od «omosessuali» è stata fronteggiata da questi/e ultimi/e, nei moderni movimenti di emancipazione o liberazione, principalmente secondo due strategie. Una consiste nell’assimilazione/omologazione o, per meglio dire, nella «mascolinizzazione» nel caso delle donne e nell’«eterosessualizzazione» nel caso dei soggetti omosessuali. (…) a presa di distanza dai soggetti più marginali e la messa in secondo piano delle loro necessità concentrandosi su quelle di chi è già privilegiato, il ribadire la propria «normalità» rispetto a chi è eterosessuale, il ribadire il fatto che l’omosessualità sia innata, quasi a volersi giustificare ed epurare da ogni colpa, il tentativo di apparire sempre più «eterosessuali» insistendo su modelli di mascolinità e di virilità sono l’altra faccia della medaglia di chi vuole essere accettato/a e assimilato/a dal sistema dominante, senza mettere in discussione le radici ideologiche dell’oppressione. (…) L’altra strategia perseguita, specialmente dal movimento femminista radicale, dalle lesbiche separatiste e dalle culture gay/lesbiche ricreative è stata quella basata sul rafforzamento delle differenze di genere e di orientamento sessuale, dall’insistenza sulla differenza e la specificità femminile, dalla creazione di una barriera tra omosessuali/eterosessuali che ha portato i primi a chiudersi nel loro ghetto felice sprezzante della normalità eterosessuale. Questo non ha fatto altro che rafforzare il muro che divide i generi, limitare l’analisi delle forme di oppressione e creare spazi alternativi di pseudolibertà dall’oppressione, senza cambiare in nulla la società più allargata: se tutte le persone queer si chiudono nei loro spazi queer per esprimere la loro affettività, allora tutti gli altri spazi pubblici rimarranno per forza di dominio eterosessuale. Identificando il «maschio» e l’«eterosessuale» come il «nemico» e le altre donne e gli uomini omosessuali come complici, non si è andati alle radici dell’oppressione, ma si è soltanto aumentato l’astio, l’odio, l’incomprensione reciproca, la generalizzazione. Si è anche annullata l’analisi di tutta una serie di relazioni di potere che si sviluppano all’interno delle comunità di donne o omosessuali. (…) Una volta preso atto delle differenze di potere esistenti, la strategia «riformista» è stata quella di cercare di accaparrarsi una fetta del potere, essere inclusi/e nel gruppo dominante, normativo. I gruppi più radicali invece, si sono spesso ribellati contro l’autorità maschile ed eteronormativa autoescludendosi, ritirandosi da ogni tentativo di integrazione, ponendo una differenza di valore tra gruppo dominante come interamente negativo e gruppo dominato come interamente positivo, senza però mettere realmente in discussione le categorie e le ideologie che avevano creato il dominio di genere. Porre una politica identitaria di netta differenziazione tra categorie (uomo/donna, etero/omo) ha portato al loro rafforzamento e talvolta alla creazione di nuove dinamiche autoritarie o escludenti all’interno dello stesso gruppo minoritario, che di fatto ricalcavano quelle poste in atto dal gruppo dominante (femministe contro donne trans, donne eterosessuali contro donne lesbiche, omosessuali contro bisessuali). Nei confronti della società dominante ed escludente si è adottata la strategia del distanziamento e della contrapposizione, di fatto ribaltando i termini della gerarchia nella propria mente e nella propria vita senza però abbatterla realmente.
Rinchiudendosi negli spazi separatisti si è chiusa anche ogni possibilità di discussione con la controparte e di trasformazione delle dinamiche dell’ideologia dominante: si è di fatto rinunciato alla lotta. Mentre il separatismo può essere un sollievo temporaneo da esperienze di oppressione, e uno spazio in cui creare nuove relazioni di fiducia, come strategia politica a lungo termine crea esclusioni e non va nella direzione dell’obiettivo più ampio dell’antisessismo, che dovrebbe essere la decostruzione della fissità dei ruoli di genere, ovvero di ciò che crea le gerarchie.
(…)
Per quanto riguarda il termine «trans», nonostante sia di origine medica, descrive un’esperienza individuale che riguarda molto da vicino la propria identità più intima, è però molto più critico descrivere con categorie identitarie le proprie preferenze sessuali e affettive, perché questo crea dei confini intorno ai nostri desideri, e perché questo meccanismo presenta l’attrazione e l’amore tra le persone come unicamente determinati dal sesso/genere dell’altr*. Sarebbe forse meglio dire, anziché «sono lesbica» o «sono gay»: «mi piacciono le donne/gli uomini», o «preferisco le donne/gli uomini», lasciando così spazio all’idea che avere una preferenza rispetto a un’altra non è un marchio indelebile inscritto nei nostri geni né un destino ineluttabile, ma una possibilità, e che le nostre preferenze sessuali sono soltanto una parte di noi, non tutta la nostra identità. Penso sia importante far sì che questo messaggio raggiunga chi non ha mai messo in discussione la propria eterosessualità. L’unica via possibile verso la liberazione di tutti e tutte sta nella critica delle categorie identitarie assolutizzanti, nella demolizione dell’equazione biologia=destino, nella ripresa della nostra specificità di individui, nella creazione di nuove autodefinizioni. Soprattutto nel momento in cui una persona ritiene di sentirsi esclusa o non rappresentata, è importante essere pronti/e a spostare i confini, a mantenere una visione fluida e non inamovibili. (…) Non è possibile separare le categorie del genere e della sessualità da tutte le altre differenze sociali che definiscono la nostra identità e i nostri rapporti di potere secondo scale di valori e di privilegi. (…)
Quello che dovrebbe unirci nella lotta non è la comunanza di genere o sesso o attrazione sessuale, ma la complicità creata dall’appartenenza a una delle categorie sociali oppresse, e la coscienza politica che porta a rifiutare l’oppressione basata su caratteristiche arbitrarie quali il genere, la razza, la classe, la sessualità.
Il nostro nemico non è «l’eterosessuale» o «l’uomo», intesi come categorie assolutizzanti che sovrastano gli individui; il nostro nemico sono le istituzioni che servono a controllarci e le dinamiche di potere presenti nelle nostre relazioni, assieme a tutto ciò che serve a opprimerci e ostacolare il nostro sviluppo come individui unici e irripetibili.”
[da Storia della resistena queer radicale: rivolta! ]
***
“Se le violenze di genere in ambiti che si definiscono antiautoritari continuano a emergere come una realtà a cui rispondere, può darsi che gli strumenti messi in atto perché questo genere di merda non accada siano poco efficaci, o insufficienti. Possiamo lasciare che ogni individuo combatta contro i propri fantasmi o organizzarci per assumerci la parte di responsabilità che deriva dal contesto. (…) Facendo una radiografia dei nostri spazi ci ritroviamo con un antifemminismo latente e contemporaneamente con la diffusa credenza che il ghetto si salvi dai comportamenti di merda che si danno al di fuori. Si crede ingenuamente, o stupidamente, che rifiutare l’oppressione patriarcale e i ruoli di genere imposti basti perché questi spariscano. Non si riconoscono i diversi femminismi che operano negli spazi, li si sottomette a una critica severa, o li si ridicolizza e tratta come questioni di scarsissima importanza. (…) Il silenzio ci trasforma in complici, e non è un opzione.
Lavorare sulla comunicazione, condividere esperienze e ragionamenti, possono portare a cambiamenti radicali e duraturi nella percezione dei propri comportamenti, e nei comportamenti stessi. (…) Astraendosi dalla situazione particolare e riportare su un piano di dibattito pubblico i temi del sessismo e della violenza significa intraprendere percorsi di rivoluzione del sé e delle relazioni che si intrecciano. Tenere primariamente nel quotidiano atteggiamenti attenti e rispettosi e introiettarli, scrivere fanzine o contributi, fomentare progetti antisessisti e di lotta al patriarcato sono strategie per superare comportamenti di merda e liberarsi progressivamente da strutture autoritarie che influenzano i nostri modi di vivere.
(…)
Occorre un distinguo sul concetto stesso di Violenza. Questa stessa parola può essere utilizzata per indicare atteggiamenti opposti, uno con una spinta liberatoria, e l’altro con una spinta oppressiva. Vogliamo riappropiarci della violenza per distruggere l’esistente oppressore, per ribaltare le strutture di potere e le autorità che le riperpetuano e proteggono. Attaccare con aggressività chi vorrebbe sottometterci e assimilarci fa parte delle pratiche che rivendichiamo come nostre e di cui vorremmo una moltiplicazione. Più spesso di quanto non ci piacerebbe ammettere, però, tra i
nostri compagni e tra le nostre compagne la violenza cessa di essere strumento liberatorio comune, riprende il percorso verticale e diventa di nuovo oppressione, torna a essere strumento di mantenimento
dell’ordine gerarchico.”
[da Violenza di genere in ambienti antiautoritari e in spazi liberati, trad. e ampliato da una zine omonima diffusa in spagnolo]
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PERCHE EMANCIPARSI DALLA NORMA E DAI SERVIZI DELLO STATO
“L’improvviso allarmismo sociale scatenatosi da diverso tempo intorno alla violenza sulle donne, sfociando in Itallia alla tanto declamata Legge sul femminicidio, rientra nella strategia di disarmo, soprattutto morale, della rivolta autonoma degli individui, e lungi dal risolvere il problemam ne crea invece di ulterori, peggiori del male stesso che strumentalmente si sostiene di voler curare e combattere. Ma da dove e da chi parte l’uso del termine femminicidio? La sua riscoperta [dopo che venne usato a livello giornalistco già nel XIX secolo per indicare l’uccisione di una donna] avvenne nel 1970 da parte dei movimenti femministi di sinistra, ma fu nel 1974, con l’Antologia inedita sul femminicidio creata dall’autrice americana Carol Orlock, che si aprì il campo al suo uso & consumo. La criminologa e attvista femminista sudafricana Diana E.H. Russel fu la prima a battersi perché il termine dosse utilizzato per indicare i crimini contro le donne, (…) in cui la violenza è l’esito di prtiche misogine. (..) Nel 1993, Marcela Lagarde, un’antropologa messicana, a sua volta, estese il termine a tutte le forme di discriminazione, violenza e violazione dei diritti umani contro le donne, in tutti gli ambiti della loro vita, denunciando una vasta gamma di casistiche di abusi e intimidazioni compiute nei confronti del sesso femminile, al fine di poter offrire del materiale utile per ricerche e studi sociologici e antropologici finalizzati ad un maggiore intervento delle istituzioni politiche sulla condizione femminile. Da questo punto in poi, questo termine vene concettualmente e ideologicamente utilizzato per promuovere delle politiche normative che si avvalgono di un’analisi per cui la donna è rappresentata monodimensionalemetne come unica protagonista-vittima-oggetto del dramma, estrapolandola dal contesto celle complesse e variegate interazioni sociali e culturali che strutturalmente coinvolgono parimenti donne e uomini all’interno della società. Ciò evidenzia e strumentalzza il modo che la donna ha di rapportarsi con il mondo maschile solo in rifermento agli eventi ed ai fatti negativi, finendo col fare di questi ultmi “la connotazione universale” della condizione stessa della donna e del suo “ruolo” nel mondo reale. Su queste basi, dunque, la preminenza dela violenza e dell’uccisione delle donne da parte dei “maschi” diviene l’unico e generale aspetto oppressivo e intimidatorio vissuto e subito dalle donne, collocando così le donne stesse in una dimensione del mondo e della realtà caratterizzata dalla paura, dall’insicurezza, dal pericolo e dalla sofferenza provocate dalla minacciosa e oppressiva supremazia maschile nei loro confronti. Di conseguenza, nell’ottica del femminismo democratico, statalista, riformista e forcaiolo, la “liberazione” e l’emancipazione della donna si ottiene con la conquista del potere da parte delle stesse sul piano sociale e poltico, economico, culturale e dei diritti attraverso l’utilizzo di strumenti coercitivi, quelli delle istituzioni pubbliche e delle leggi, (…) che nell’asservimento allo Stato ed al capitalismo, pur nell’interscambiablità dei ruoli, ne prosegue l’opera d dominio e conservazione sistemica.
L’uso gratuito della violenza tesa ad impedire la libertà altrui, al di là di chi la compie e di chi la subisce, è chiaro che va sempre impedita e fermata, ma occorre dire che il fenomeno retorico-ossessivo, tutto di stampo occidentale, del femminicidio, non indica solo un reato violento verso le donne in quanto donne, ma serve a certe forze progressiste per poter accampare e affermare nuove forme redstributive di risorse e garanzie (…). Ciò che non si vuole vedere è che in questo terribile vortice di disprezzo dell’individuo rientrano a pieno titolo e contribuiscono non poco (…) le pressioni all’interno di famiglie esasperate dalla povertà e dall’esclusione sociale, concorrendo a generare situazioni prive di freni inibitori nei confronti delle persone generalmente più deboli della famiglia: bambini innanzitutto, donne, ed anziani. É quando le persone non hanno una propria autonomia che subiscono maggiormente ricatti, sopraffazioni e negazione dei “diritti” da ogni lato. E tramite le Leggi, lo Stato, oltre a cautelare se stesso, porta gli individui a diventare “inabili”, incapaci di emanciparsi da sé, di solidarizzare tra loro ed autodifendersi, per evitare che si incida contro di esso nella sua interezza di interessi. (Perciò) La vera tutela degli individui, comprese le donne, parte da una maggiore auto-responsabilità individuale e sociale, e dalla volontà solidale e reciprocamente condivisa di sviluppare dei rapporti e delle relazioni umane sempre più tese al miglioramento ed al benessere emancipativo ed egualitario di tutti e di ciascuno, (…) riappropriandosi anzitempo della propria soggettività.
(…)
Le lotte dirette ed autonome sono andate via via scemando fino ad essere assorbite e disinnescate dalla delega dei problemi sociali alla vasta rete organizzativa di strutture, enti, servizi, associazioni, cooperative e istituzioni pubbliche o private, laiche e religiose, preposte al controllo e alla gestione del sociale, degli individui e del loro stesso privato-esistenziale. (…) Le donne che oggi si trovano ad aver bisogno d’aiuto, su vari piani e per vari motivi, perché isolate nella loro situazione di sofferenza, non avendo altra alternativa vengono prese “in carico” da queste strutture, diventando in tal modo delle “assistite”. In assenza di un’autogestione diretta, solidale e orizzontale delle donne stesse rispetto ai tanti problemi che le riguardano, queste dinamiche socio-assistenziali concorrono a far sì che si venga completamente spossessate dell’intraprendere un concorso materiale attivo, solidale e orizzontale con le altre donne, le quali seppur present in questi luoghi amministrativi, lo sono nel ruolo di assistenti e specialiste prezzolate che intrattengono un “rapporto di servizio”, (…) un contratto palesemente diseguale e “suscettibile di numerosi abusi” (Elisabeth H. Wolgast). (Per altro, stipulato) rispetto a dinamiche di sofferenza per cui, come in ogni rapporto medico-paziente, la stessa integrità e potenzialità decisionale di chi si rivolge ai servizi medicali sono facilmente compromesse, creando un rapporto retto dalla dipendenza. (…) Va detto pure che già da diverso tempo i consultori, in passato principalmente autogestiti dalle donne per venire incontro, informare, sensibilizzare e aiutare orizzontalmente altre donne, (…) sono stati trasformati oramai in centri di controllo in linea diretta con polizia e tribunali, dove anche la sedicente prevenzione sessuale superficialmente propagandata è, in linea generale, nei suoi interventi pratici, condizionata dalla bigotteria pregiudiziale e moralistica della Chiesa e della cultura fascio-democratica dominante. (…) Per non parlare della Legge 184 per l’interruzione volontaria di gravidanza, la quale benché sia a carico del Servizio sanitario nazionale fino a 90 giorni, viene praticata nelle cliniche private sotto lauto pagamento da quegli stessi medici che negli ospedali pubblici ricorrono sempre più ipocritamente alla “obiezione di coscienza”. Questa discriminazione, che è una vera e propria violenza istituzionale, crea enormi difficoltà di accesso a tante donne, soprattutto in alcune regioni meridionali.”
[da J’accuse. Oltre il femminismo e le guardiane del sistema, di Michela Ortu]
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“Siamo dispostx ad abbattere foreste e allagare valli fluviali, dislocare centinaia di animali selvatici (molti dei quali moriranno poi per la mancanza di riparo e di terre da pascolo), per lavoro. Siamo dispostx a trasformare infinite fragili comunità ecologiche in terre desolate di cemento, cumuli di scorie e fango, per lavoro. Siamo dispostx ad avvelenare fiumi, laghi e l’aria, con ogni sorta di inquinamento, per lavoro. In sostanza siamo dispostx a violentare questa terra in ogni modo, almeno finchè le buste paga continuano a girare. Vivendo in una società completamente industrializzata, crediamo che per sopravvivere dobbiamo avere un impiego, e in questo modo siamo diventatx totalmente dipendenti dalle aziende e altre grandi istituzioni per il nostro sostentamento.
(…)
Anche se indubbiamente queste merci e i servizi che promuovono potrebbero esserci di beneficio se ci fossero le giuste condizioni, questo argomento ha un difetto essenziale. Ignora la vasta e complessa sottostruttura industriale che deve esistere prima che queste merci e servizi possano essere creati. (…) Inoltre, anche se in questo processo di produzione venissero attuati i metodi più avanzati ed efficaci di controllo dell’inquinamento e di riciclaggio (che ancora una volta dipendono dalle proprie parti e materiali industriali), non c’è modo in cui questa mole di attività industriale non abbia un grave impatto sul mondo naturale. Non c’è modo in cui una società che volontariamente impiega questa mole di industrie possa dire onestamente di vivere in armonia con la natura. Nella società consumista in cui viviamo oggi, le relazioni umane tendono anch’esse a disintegrarsi insieme alle relazioni con la natura. Subiamo frequentemente abusi e insulti sia sul posto di lavoro che nel mercato da parte di impiegati interessati solo alla nostra produzione in quanto impiegati, generalmente insensibili ai nostri sentimenti in quanto esseri umani, e da imprenditori che ci vedono solo come consumatori da cui trarre profitto, che hanno scarsa considerazione dei nostri reali bisogni in quanto esseri umani. Questa umiliazione e questi abusi che viviamo quotidianamente (e che assumono diverse forme) portano inevitabilmente a sentimenti di impotenza, frustrazione e inadeguatezza, che tendiamo a sfogare in vari modi negativi. Tra questi vi è spesso la fuga attraverso le droghe o l’alcol, e la violenza domestica o di altro tipo. Abbiamo così poco controllo sulle nostre stesse vite che cerchiamo di compensare questo dominando altrx. Diventiamo anche amareggiati e apatici verso la vita in generale, e sospettosi e intolleranti verso altri esseri umani. Allo stesso tempo, mentre accade tutto questo, veniamo ripetutamente incoraggiatx attraverso i media istituzionali e le pubblicità delle multinazionali ad essere altamente competitivx e totalmente materialistx, a giudicare noi stessx e le altre persone in base a quello che possediamo anziché a quello che siamo. Accettando questi valori e cercando di vivere in base ad essi, diventiamo poco più che macchine, che recitano funzioni pre-programmate a spese della nostra e altrui libertà e dignità.
[da L’etica protestante del lavoro e il sogno occidentale di Gerry Hannah, in Direct Action. Guerra al patriarcato, guerra alla tecnologia assassina]
AZIONE DIRETTA, ATTACCHI AL POTERE
“Abbiamo visto continuamente le multinazionali abbandonare regioni in cui i loro investimenti erano a rischio. Abbiamo visto continuamente l’incapacità dei governi di proteggere gli interessi delle multinazionali dal crollo in quella regione. Abbiamo visto continuamente le multinazionali prendere decisioni in base ai prezzi delle loro azioni. Abbiamo visto continuamente i politici accordarsi con qualunque multinazionale fosse sulla cresta dell’onda. In base a queste osservazioni, abbiamo deciso di dirigere la nostra campagna contro la proprietà.
(…)
Diversamente dalla maggior parte dei gruppi di guerriglia urbana e dei movimenti sociali degli anni ‘70 e ‘80, non accettavamo ciecamente il concetto che la tecnologia, il progresso, lo sviluppo, la scienza e il benessere materiale fossero positivi di per sé. Non condividevamo neanche la visione socialista dello Stato come strumento rivoluzionario del popolo. Nella nostra analisi lo Stato è un apparato repressivo che accentra il potere e l’attività decisionale nelle mani di un numero ristretto di persone che inevitabilmente diventeranno corrotte, che siano contadini, operai, della classe media o della classe dominante. A posteriori, se dovessi definire l’analisi politica del nostro gruppo di guerriglia, Direct Action, direi che ha più in comune con l’anarchismo verde che con ogni altra ideologia. Le nostre idee politiche si sono evolute dal nostro coinvolgimento con le popolazioni originarie native che ci hanno mostrato come la mentalità occidentale – nella forma del patriarcato, del capitalismo, e perfino del socialismo – tendesse ad oggettivare la vita sul pianeta. Le popolazioni originarie native ci hanno insegnato come l’oggettivazione della vita intrinseca alle filosofie del capitalismo e del socialismo riducesse ogni forma di vita a un mero valore materiale, rafforzando quindi uno dei peggiori aspetti della natura umana: l’avidità. Nella pratica, questo significa che ogni forma di vita viene sfruttata, riducendo l’ambiente a una “risorsa naturale” da “sviluppare” per il profitto. Animali, uccelli, pesci e insetti diventano “prodotti”, “bestiame”, “animali domestici”, “selvaggina” e “parassiti”. Le donne diventano oggetti sessuali da sfruttare per vendere “prodotti”, mentre gli umani in generale diventano “consumatori” e “produttori”. Secondo questo modo di pensare, il criterio più importante nel determinare il valore umano è la produttività di una persona all’interno del sistema economico, di conseguenza le persone disoccupate e quelle che vivono di sussidi pubblici sono considerate un peso.
Le nostre idee politiche erano anche profondamente radicate nei movimenti femministi, ecologisti e anarchici degli anni ‘70. L’orientamento politico di molte persone radicali si era sviluppato da questi movimenti negli anni ‘70, tuttavia noi abbiamo deciso di introdurre una pratica più militante creando un gruppo di guerriglia urbana ispirato ai gruppi di guerriglia europei come la Rote Armee Fraktion (RAF) e le Brigate Rosse (BR), così come da gruppi americani di guerriglia come il Black Liberation Army (BLA) e il Symbionese Liberation Army (SLA). Questi gruppi, a loro volta, erano stati ispirati dai vari movimenti armati anti- imperialisti di liberazione attivi quasi ovunque nel mondo colonizzato. In altre parole, la nostra ideologia politica era stata modellata dai movimenti sociali dei popoli Nativi, dal femminismo, dall’ecologismo, e dall’anarchismo, mentre le nostre pratiche politiche traevano ispirazione dai vari gruppi di guerriglia urbana attivi globalmente. Questo ha creato un interessante mix di lotta armata senza il nazionalismo, l’avanguardismo, il marxismo o il materialismo così prevalenti nella grande maggioranza dei movimenti di guerriglia urbana attivi durante gli anni ‘60 e ‘70.
[da Lotta armata, guerriglia e influenze dei movimenti sociali di Ann Hansen, in Direct Action. Guerra al patriarcato, guerra alla tecnologia assassina]
“I giornali canadesi Open Road a Vancouver, Bulldozer a Toronto, e Resistance, che è iniziato a Toronto e poi si è spostato a Vancouver, si sono occupati della resistenza armata negli Stati Uniti e della successiva repressione. Questa copertura ha giocato un ruolo di crescente importanza nel momento in cui i gruppi apertamente solidali negli Stati Uniti venivano repressi a loro volta e la sinistra istituzionale cercava di prendere le distanze il più possibile. (…) Il più conosciuto di questi gruppi è la George Jackson Brigade, composta sia da anarchichx che da marxistx. Realizzarono una serie di azioni nell’area di Seattle alla fine degli anni ‘70, spesso in supporto al movimento dei/delle prigionierx che a quel tempo era molto forte. La George Jackson Brigade era anti-autoritaria, femminista e pro-gay/lesbica.
(…)
Quello che distingue gli attacchi di Direct Action e della Wimmin’s Fire Brigade da molti dei gruppi di guerriglia di quel periodo è la loro critica esplicita dello Stato e della società tecno- industriale come collegati alla creazione e al mantenimento del patriarcato. Direct Action e Wimmin’s Fire Brigade, con i loro attacchi all’infrastruttura tecno-industriale e ai centri di produzione del genere, hanno colpito le radici stesse della società. Anche se alcune delle loro scelte e analisi lasciano lo spazio aperto per delle critiche, le intenzioni e gli obiettivi delle loro azioni sono andati oltre quella visione ristretta e quell’attaccamento a una qualche forma di autorità (tecnologica, patriarcale, o statale) che ha caratterizzato la maggior parte dei gruppi che hanno scelto di prendere le armi. (…) Diversamente da gruppi come i Weather Underground, Direct Action si opponeva allo Stato in tutte le sue forme; niente marxismo-leninismo e strutture gerarchiche, ma un odio per tutte le strutture di potere, comuniste tanto quanto capitaliste. E a causa di questo rifiuto totale (e in virtù delle loro connessioni con la lotta indigena), il gruppo ha attaccato, con le parole e gli esplosivi, l’infrastruttura tecnologica e industriale. Non era soltanto il capitalismo, ma la stessa civilizzazione, che Direct Action cercava di colpire. Con le loro azioni e i loro scritti, hanno contribuito a mettere in chiaro alcune cose essenziali.
Il patriarcato non può essere distrutto con la progressiva integrazione delle donne nelle strutture del capitale e dello stato. Non può essere distrutto con i salari per le casalinghe, con le donne poliziotto, con la spiritualità femminile, con le donne in carriera. Queste mezze misure rafforzeranno soltanto il controllo permettendo la sua diffusione in tutta la vita sociale e il suo colonizzare il nostro stesso essere. Più estendiamo il dominio per includere nuovi soggetti, più forti rendiamo le nostre catene.
La tecnologia non è un insieme di strumenti neutrali che possono essere usati in modo
“nuovo” ed “egualitario” da una società liberata. E’ un apparato che cattura, classifica e distorce le nostre vite, assimilandoci nella sua visione del mondo: la visione del mondo di una macchina. Quando usiamo la tecnologia, accettiamo il mondo che l’ha creata, con tutte le sue implicite ed esplicite relazioni di potere, e in cambio riproduciamo quella società con la nostra attività. Siamo intrappolati in un processo in cui creiamo nuovi strumenti per il nostro controllo e il nostro sfruttamento, non mettendo mai in discussione questo apparato che ci ha reso i nostri stessi carcerieri. Non vi è possibilità di una società liberata senza la completa distruzione e abbandono della tecnologia e della sua visione del mondo.
[dall’introduzione a Direct Action. Guerra al patriarcato, guerra alla tecnologia assassina]
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“Uno slancio distruttivo che esalta la vita (…) e che si lascia alle spalle quella rigidità dogmatica, quell’eccesso di serietà, quella mitologia della lotta che tende a sostituirsi al desiderio tipica di quei gruppi ancorati a un approccio militante ideologico in cui l’esplorazione gioca dei desideri viene spesso soggiogata dal”sacrificio” del sé, da un auto-disciplinamento che non parla di gioia ma di un dovere, oltre che essere intriso di moralità e di giudizio continuo.”
Questo approccio, ci allerta Hocquenghem, porta a fossilizzarsi nel proprio ruolo di rivoluzionari [d’avanguardia] dimenticando che la rivolta è qualcosa che va praticato tutti i giorni, senza distinzione tra le sfere della propria vita, ed è questa l’unica cosa che alimenta la lotta, al di là dei discorsi teorici roboanti.
A questo punto risulta evidente come quell’attitudine ancorata al martirio dell’individuo sull’altare della collettività, all’indirizzamento delle passioni in logiche di potere, calcolo od efficacia, ragionando in termini di masse e delle loro rappresentanze, sia per Hocquenghem quanto di più controrivoluzionario possa esistere. Nasce quindi una concezione anti-politica della lotta, che pone al centro la caoticità del desiderio, per liberarsi da ogni pretesa unitaria e totalizzante, perché questa altro non è che forma complice del capitalismo. La lotta non solo si trasforma in una guerra condotta su due fronti, contro lo sfruttamento sociale e la repressione psichica, ma estende i suoi orizzonti ancora oltre, si sposta e conquista nuove zone, andando a interrogare il rapporto stesso tra passioni e realtà.
La libido si mescola con il conflitto di classe, la questione del desiderio entra in relazione con l’agire militante e lo travolge, trasformandone il senso, andando a colpire anche quegli asceti politici, quei militanti cupi, i burocrati della rivoluzione e i funzionari della verità, che vorrebbero preservare l’ordine pure del discorso politico e della sua pratica. In contrasto v è l’attività di piccoli gruppi autonomi e spontanei, la moltiplicazione e proliferazione al posto della convergenza in una struttura di massa. Una predilezione per la differenza anziché per ciò che è uniforme, per il flusso anziché per le unità, per ciò che è nomade anziché sedentario.
Quello che accomuna tutti questi fattori è l’assoggettamento delle passioni da parte del simbolico, la cattura del corpo avviene attraverso il linguaggio, le istituzioni dell’identità e della sessualità insieme agli altri apparati di categorizzazione e disciplinamento di razza e genere. Vi è qui uno sradicamento dei modi di essere non produttivi, una repressione dell’omosessualità e del desiderio polimorfo, delle soggettività non inquadrabili, ai fini della nostra trasformazione in corpi-macchine da lavoro.
Dal punto di vista del desiderio, tutto appare più evidente: famiglia, fabbrica, partito, scuola, identità, virtualità, norma, sono tutte espressioni di una civilizzazione che annichilisce, addomestica, ingabbia, disciplina le nostre esistenze, le nostre volontà, i nostri corpi, per indirizzarli verso scopi produttivi e riproduttivi da eseguirsi per il funzionamento dell’ordine sociale industriale capitalista patriarcale.
LA CIVILIZZAZIONE È LA TRAPPOLA IN CUI IL DESIDERIO CONTINUA A CADERE
La lotta contro la civilizzazione si svolge quindi contemporaneamente quale una lotta contro noi stessx quali veicoli di trasmissione dell’ordine sociale: i ruoli e le identità statiche, in particolare quelle basate sul fallo, ma pure quelle che si vorrebbero contro-normative.
Hocquenghem con grande lungimiranza, già negli anni ’70, anticipa e mette in allarme del possibile recupero delle rivendicazioni LGBT da parte del capitalismo e dello Stato. (…) Egli auspica quindi una tensione che nasca dalla negazione nichilista e non da una ristrutturazione. D’altronde, il nostro anarchismo è sempre scaturito da un rifiuto, ed è proprio da quel rifiuto spontaneo e ribelle che si ha da ripartire per spogliarsi di ogni traccia di calcolo politico.
LA NOSTRA TEMPESTA È IRRAZIONALE, INCOMPRENSIBILE, ANONIMA, SPIETATA, INCOERENTE E INESORABILE”
[ crf. Hocquenghem e la rivoluzione del desiderio, da Paroxysm of Chaos n.1 col titolo Negatività Queer, articolo ripreso in Caligine n.3 ]
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“Solo così inizieremo a deliziarci con la fantasia e slegata dalle catene del possibile,
solo così capiremo cosa vuol dire avere una immaginazione libera, a prefigurarci l’impossibile..”
[ Voltairine de Cleyre ]